Dialogo tra anima e animus

“Colui che cerca con curiosità
scopre che ciò è già di per sé
una meraviglia.”

M.C. ESCHER

 

Ciò che caratterizza e lega le opere di Viola Granucci è una continua ricerca dell’individualità intesa non tanto come indagine dei molteplici aspetti assunti dall’individuo, bensì come analisi di quei principi fondamentali che si contrappongono e si compenetrano definendo l’individuo stesso, costantemente in bilico tra equilibrio e caduta, tra conquista e perdita della propria identità. Si tratta di un tentativo felicemente riuscito di descriverne la pluralità o meglio la dualità, in particolare la scissione tra principio maschile e femminile, ove, abbandonando progressivamente il più evidente significato di contrapposizione tra uomo e donna, si approda al significato più profondo e assoluto dell’essere come coincidenza degli opposti, come anelito alla ricomposizione di un’unità primigenia. A tale dualità sottende, in un certo qual modo, anche l’arte di Viola Granucci, al contempo fotografa e scultrice: due diverse discipline artistiche che in lei risultano strettamente connesse. Se infatti nei vari progetti nazionali e internazionali – a partire da Bambini di Belgrado (2006) passando per Identità americane (2007) e Scatti d’immaginario (2012) sino al più recente Scambio di identità  (2013) – la Viola Granucci fotografa indaga la realtà fenomenica descrivendo attraverso i suoi scatti ora l’emarginazione, la solitudine, la fragilità delle “identità perdute” dei bambini vittime della guerra in Serbia; ora la precarietà della cosidetta “gente comune” nella provincia nordamericana; ora gli aspetti surreali, poetici, a tratti favolistici del mondo reale trasfigurato dall’arte; ora infine l’affermazione di un’identità fittizia e immaginaria sull’identità collettiva; nelle opere plastiche, e in particolare nella produzione più recente, la Viola Granucci scultrice oltrepassa il limite esperienziale dell’immagine fotografica per attingere ad un significato più profondo si direbbe archetipico di quella stessa realtà. Spinta da un’insaziabile curiosità che è anche meraviglia per tutto ciò che la circonda e la coinvolge, Viola Granucci attinge, attraverso l’arte plastica, ai nessi più reconditi di quel mondo fenomenico evocato nei suoi scatti fotografici, e si spinge sempre più in profondità alla ricerca del senso ultimo delle cose, dell’Uomo e della sua identità. per farlo emergere in superficie al fine di renderlo espresso, palese, manifesto. Un processo questo a cui alludono le tante scale presenti nelle sue sculture, spesse volte costruite in maniera surreale, si direbbe quasi alla Escher, e pecorse nei due sensi, dalla superficie alla profondità e viceversa, in un’infinita, inarrestabile, ciclica sequenza di immersioni ed emersioni caratterizzata da continui capovolgimenti prospettici. Attraverso queste scale simboliche, talora addirittura incorporee come in Scala invisibile, alcune sparute figure umane in bronzo (reminiscenze di altrettanti antichi idoletti etruschi) scendono all’infinito verso le più recondite profondità dell’Io recando in superficie il senso della propria esistenza e della propria identità in un’eterna ciclica animazione junghiana di archetipi, di cui le opere di Viola Granucci costituiscono una sorprendente quanto meravigliata allegoria. Alcune di queste figure sono solitarie o destinate a non incontrasi mai come in Scala infinita, Scala sotto sopra o Scala verticale; altre invece, come in Punto d’incontro, sono destinate infine a ritrovarsi e a ricongiungersi. Si tratta, in questo caso, di una figura maschile e di una femminile, esplicita allusione non solo al rapporto uomo-donna ma anche al concetto squisitamente junghiano della coesistenza in ogni essere umano di un principio maschile e di uno femminile; principi che lo psicologo svizzero chiama Animus e Anima, incarnazione il primo del logos ossia della ragione, della pluralità e delle istanze morali; il secondo dell’eros ossia dello spirito, della personalità indipendente all’interno della psiche individuale. A questa duplice natura dell’Umano alludono anche i materiali in cui sono realizzate le sculture: d’un lato la terracotta, che simboleggia la natura materiale, fragile, transeunte di ogni individuo, dall’altra il bronzo, simbolo invece dello spirituale e dell’eterno che travalica la stessa permanenza umana nel mondo terreno. In tale paradigma è centrale la ricerca di un equilibrio fra queste due istanze, un equilibrio che non è mai statico bensì dinamico, un equilibrio fragilissimo che può tuttavia rompersi ad ogni istante e condurre alla caduta e alla catastrofe interiore. A tale equilibrio dinamico allude appunto il titolo dell’opera Equlibrium, realizzata da Viola Granucci sia in dimensioni ridotte in bronzo e terracotta sia, in grandi dimensioni (2 metri di diametro) come installazione in ferro sagomato per il Bosco delle Sculture di Sugame a Greve in Chianti. Nella prima le due figurine in bronzo, una maschile e una femminile, simboliche rappresentazioni di Animus e di Anima, si trovano in equilibrio in un alterno gioco fatto di spinte e controspinte a cui concorrono le forze contrapposte esercitate dalla tensione muscolare delle gambe mentre la schiena di ognuna di esse poggia immobile sulle pareti interne di un cerchio in terracotta. Un cerchio che simboleggia da un lato la circolarità della vita, dall’altro l’anello nuziale che sancisce appunto l’unione tra l’uomo e la donna. Anche ne Il bacio  sono presenti due figurine in bronzo, una di sesso maschile e l’altra di sesso femminile, entrambe inscritte all’interno di un cerchio in terracotta bianca, simbolo della circolarità della vita e dell’eterno processo di individuazione del sé. Qui però, a differenza della precedente opera, le due figure non si contrappongono, bensì si intersecano e si compenetrano in una in sorta di pas de deux ispirato all’Uomo vitruviano di Leonardo unendosi attraverso un bacio inteso non solo nel suo significato eminentemente erotico di comunione fisica tra uomo e donna ma anche in quello di comunione spirituale, di mutuo passaggio dell’alito dall’uno all’altro essere in una sorta di rievocazione ed eternazione dell’atto divino della creazione. Allegoria di questa opposizione-comunione dei due principi, maschile e femminile, è Il gioco della coppia dove le due figurine bronzee si trovano sedute ai margini opposti di una mezzaluna in terracotta intente a mantenere una sfera (prefigurazione del mondo) in perfetto equilibrio al centro di una simbolica altalena. Ma l’equilibrio può talvolta rompersi. È ciò che succede in altre due opere, analoghe alle precedenti, ma di segno diametralmente opposto. Ne Il tiro alla fune il cerchio si spezza così come si spezza la corda tesa tra le due figure. Esse vengono inesorabilmente condannate alla caduta lungo le superfici dei due semicerchi, ancora per poco uniti tra loro per un breve tratto. La contrapposizione dei due principi sfocia qui nella catastrofe interiore, nella rottura dell’equilibrio: il dialogo tra Animus e Anima si è interrotto. Lo stesso accade ne Il labirinto dove all’armoniosa mezzaluna che costituisce la simbolica altalena del Gioco della coppia si sostituiscono le linee scomposte e frammentate di un labirinto nei cui meandri una coppia si è irrimidebialmente perduta condannadosi all’incomunicabilità. Se infatti le due figure del Gioco della coppia si guardano dritte negli occhi corrispondendosi con lo sguardo teso alla ricerca l’uno dell’altra in una sorta di dialogo a distanza, ne Il labirinto gli sguardi non solo sono rivolti in direzioni opposte (l’uomo guarda verso la terra, la donna verso il cielo) ma addirittura le due figure si nascondono il volto con le mani precludendosi con un gesto volontario qualsiasi possibilità di comunicazione. Il dramma della scissione e della dualità dell’essere umano, l‘incapacità di ricomporre la frattura di questa duplice natura, maschile e femminile, si ritrovano espressi altrimenti in opere come Uomo a metà, ove le due metà di una figura maschile si stagliano sui margini opposti di una scala impercorribile che attraversa lo spazio sottostante ma che non conduce da nessuna parte. Allo stesso modo in Conversazioni due mezze figure, in questo caso una maschile e una femminile, si affrontano prive di identità ai margini opposti di un profondo solco che taglia in due il suolo sottostante al cui centro si individua una cerchio anch’esso ugualmente interrotto. I volti delle due mezze figure poggiano invece sul suolo dietro ai loro piedi, preclusi al contatto visivo dai due mezzi corpi che s’innalzano al di sopra di essi. Anche qui Animus e Anima vivono una frattura insanabile e un dialogo impossibile la cui inesorabilità viene sancita dal gesto arrendevole dell’uomo che allarga le braccia in segno di rinuncia. Ma Animus e Anima possono assumere altre forme come in Riva al mare I, Riva al mare II e Onda su onda. Qui l’Anima assume le sembianze di un fanciullo avvinghiato al corpo di un adulto (Animus) in una sorta di raffigurazione di paternità. Riprendendo una simbologia cara all’arte paleocristiana e bizantina di rappresentare l’anima come un infante in seno a Cristo (come nella Dormizione della Vergine dove il Salvatore tiene stretto al petto l’anima della Madre in forma di un bimbo in fasce) o ai Profeti (Sinus Prophetarum), il fanciullo (quasi una reminiscenza pascoliana) esprime simbolicamente la parte più profonda, più pura, più incorrotta dell’Uomo assurgendo al ruolo di guida nel suo percorso interiore che si svolge sul limitare dell’essere e del non essere, della vita e della morte. Una soglia, un limite che si palesa nella sculture eminentemente allegoriche di Viola Granucci ora sotto forma di una riva, ora di una spiaggia, ora della cresta di un’onda: linee fisiche (alla terracotta si unisce anche la sabbia) e ideali che separano e uniscono a un tempo due opposte profondità, quella del mare e quella del cielo, due delle tre essenze di cui si compone l’Uomo primigenio fatto di acqua, di terra e del soffio divino.

STEFANO MASI

Descrizione concettuale delle opere